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COMUNICATO STAMPA    Firenze, 22.9.’10

 

PIETRO MIRABELLI, ALFIERE DEI DIRITTI DEL LAVORO, È MORTO IN CANTIERE, IN SVIZZERA.

 

Una spinta naturale e irresistibile alla giustizia sociale, alla dignità della persona, ai diritti del lavoratore: questo e tanta calda umanità nel DNA di quest’uomo, Pietro Mirabelli, uomo intero, bandiera di un Sud che dopo 150 anni di cosiddetta unità d’Italia l’emigrazione ancora dissangua.

Il 29 marzo 2001 "Pietro il minatore", delegato sindacale CGIL, volle scrivere al presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, dal cantiere TAV del Carlone, una lettera aperta.

“Le ho stretto la mano quando, un mese fa, è venuto a "festeggiare" nella galleria di Vaglia dell'Alta Velocità ferroviaria l'abbattimento di un diaframma. L'ho chiamata con rispetto, Le ho stretto la mano e Le ho sussurrato: "Ci salvi Lei, Presidente!". Ricorda? Mi ha guardato, ha avuto un moto di sorpresa forse: ero proprio io, quel  rappresentante sindacale delegato alla sicurezza che Le aveva scritto poche ore prima per chiedere di poterLe parlare in occasione della sua visita. Avrei voluto raccontarLe i problemi che assillano ancora oggi la vita, e umiliano la dignità, di centinaia e centinaia di lavoratori aggiogati al ciclo continuo e a condizioni ambientali abbrutenti, qui nella civilissima Toscana, nelle viscere dell'Appennino, in mezzo all'acqua e al fumo, a mille chilometri da casa. Ma la Prefettura di Firenze mi informò che quel giorno Lei avrebbe avuto troppo poco tempo. E che tuttavia avrei potuto scriverLe, certo che Ella mi avrebbe letto.

Ecco dunque ciò che un delegato sindacale eletto dai minatori della TAV Le chiede con un ultimo (creda: ultimo) lumicino di speranza. Dopo che tutte le altre strade si sono mostrate sbarrate. E' un appello con le valigie in mano, signor Presidente. E' un appello a intervenire. A chi le scrive è rimasta solo la scelta di lasciare il proprio lavoro, la propria rappresentanza, le proprie speranze. Il proprio stesso Paese”.

E così si chiudeva, quella lettera che non passò certo inosservata, dopo che anche il cardinale di Firenze mons. Silvano Piovanelli aveva perorato in una omelia pasquale nella cattedrale di Santa Maria del Fiore la causa dei moderni ultimi:

“Le scrivo, Presidente, con un piede dentro e uno fuori da quel cantiere di Vaglia, in provincia di Firenze, in cui lavoro da due anni e che anche Lei ha visitato in un giorno molto, molto particolare. Non credo che potrò resistere a lungo nel clima di ostilità che si è costruito intorno a questa lotta giusta e condivisa. Temo proprio di dover gettare la spugna. Di dovermene andare.

Oso aspettarmi da Lei, Presidente, una risposta a questo ultimo grido di speranza, che Le indirizzo prima di essere costretto a cercare lavoro e dignità all'estero. Dove spero di trovare quel rispetto, quella civiltà, che la nostra Repubblica non sta dimostrando di saper garantire né a chi ha voce per protestare né ai mille protagonisti muti della costruzione di questa opera "pubblica" insieme alla quale si stanno distruggendo in realtà le loro vite, la loro dignità, le loro speranze. Ma in fondo anche i diritti di tutti.

Tutte le volte che ripasserò dalla Toscana, signor Presidente, mi farà male al cuore pensare che cosa c'è dietro l'immagine di questa regione, fino a ieri così positiva e progressiva, per tutti noi nel nostro povero Sud! Cosa c'è dietro questa mitica "terra delle libertà e dei diritti"!

Se non interverrà Lei, chi si potrà dire che la sta vincendo questa battaglia, signor Presidente? Lo Stato o la Prepotenza? Il Diritto o la Sopraffazione?”.

Da allora, è cambiato qualcosa?

Molti segni indicano che no, che in certi luoghi le condizioni di lavoro sono diventate addirittura peggiori.

Qualche mese fa, dopo aver perso l’impiego nei cantieri TAV, dopo mesi di inutile ricerca di un lavoro, l’alfiere dei diritti e della sicurezza ha dovuto abbandonare un nuovo impiego nei cantieri della Variante di valico, troppo umilianti per lui. Pietro è davvero partito, ha davvero lasciato non solo la Calabria e il suo paese di minatori da generazioni, ma anche l’Italia. Ed è andato a morire in Svizzera. Solo.

Di noi, era per molti versi il migliore. Di sicuro il più esposto, il più coraggioso. Ma alla fine non siamo stati in grado di trattenerlo. Non abbiamo saputo difendere fino in fondo chi difendeva l’umanità del lavoro. Un uomo che dalle autorità pubbliche avrebbe meritato attenzione, plauso e tutela, è morto solo, in terra straniera. Insieme a quei massi di galleria è precipitata su di lui la storia di un Sud che non cessa di soffrire e di emigrare, la storia di un Nord che non cessa di coltivare un’idea distorta ed egoistica di progresso, una storia che non sembra voler cambiare marcia e direzione. Ma noi non dimentichiamo, e anzi continuano a darci forza, il suo sorriso fraterno, il suo acuto intuito, il suo impegno intelligente, generoso e determinato.

 

 

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